lunedì 31 marzo 2008

Dall'India agli States, i call center ritornano

Con la recessione che avanza i call center tornano in patria.

Non si è ancora esaurita la spinta alla delocalizzazione ma, complice l'annunciata recessione, sono sempre di più le aziende americane che fanno marcia indietro. E passano all'"inshoring", ovvero riportano in patria fasi produttive che la loro azienda aveva esternalizzato all'estero.

Con il risultato che iniziano a chiudere i call center di Bangalore e ne nascono di nuovi a Cincinnati. Perfino ditte indiane come la Infosys e Tata Consultancy Services hanno deciso di chiudere alcuni centri in India per aprirne di nuovi in America.

Sarà perché gli americani lavorano meglio? In effetti, c'è chi sostiene che sia una scelta dettata dalla volontà di fornire servizi migliori ai propri clienti, che sarebbero garantiti dalla maggiore esperienza degli americani nel campo delle nuove tecnologie.

La realtà è più amara. Si tratta di una mera questione economica. Con il dollaro ai minimi storici anche rispetto a monete come la rupia e il renminbi, il vantaggio di assumere dipendenti indiani o cinesi si è alquanto assottigliato.

E mentre gli stipendi dei lavoratori indiani dell'alta tecnologia crescono dal 2000 a un ritmo del 15% annuo, gli stipendi americani viaggiano in controtendenza. I programmatori degli States sono passati da un guadagno di 90 mila dollari annui ai 50-60 mila attuali.

Ultimo, ma non per importanza, il fattore disoccupazione: a causa della recessione economica, l'impiegato dei call center americani è sempre più qualificato. Nell'80% dei casi ha frequentato l'università, per il 10% è laureato. E non è più un ragazzino appena uscito dalla scuola, in media è ultraquarantenne, con un buon bagaglio di esperienze alle spalle.

Non c'è quindi tanto di cui gioire per l'inversione di tendenza delle aziende statunitensi.
Certo, si ricreeranno posti di lavoro negli Usa. Ma solo perché non ci sarà più bisogno di pescare lavoratori sottopagati negli stati a economia emergente, come si faceva un tempo. Anche gli States ora possono vantare il loro esercito di impiegati a buon mercato, disposti a turni massacranti per pochi dollari in busta paga.

Si era già previsto che la spinta delle tigri asiatiche si sarebbe inevitabilmente ridotta quando le richieste dei lavoratori fossero aumentate, sia per quanto riguarda la paga che le condizioni di lavoro.
Ma qui sembra che l'andamento sia inverso: non sono le paghe indiane ad adeguarsi a quelle statunitensi, sono i lavoratori americani che si adattano agli standard indiani. Anzi, dal punto di vista del welfare forse gli indiani stanno pure meglio.

sabato 22 marzo 2008

Gli amici del Dalai Lama


Sempre di meno. La lista degli amici del Dalai Lama si riduce sempre piu'. Anzi, forse di amici veri gliene rimane soltanto uno, Richard Gere.
L'aveva gia' capito durante la scorsa visita in Europa che la sua compagnia era diventata imbarazzante. Con una scusa o con un'altra era stato liquidato alla bell'e meglio da tutti i rappresentanti di governo della Ue, eccetto che da quel buon cuore della Merkel.
In Italia l'aveva incontrato la Moratti, avendo cura di nasconderlo fra altri Premi Nobel, e Beppe Grillo.

Anche dopo la rivolta repressa nel sangue, nonostante tutta la solidarieta' espressa, il Dalai Lama e' solo. I tibetani sono soli. Boicottare le olimpiadi non porterebbe a nulla - dice quasi tutto il mondo. Con la Cina non si scherza.

Durante la Via Crucis il Papa parla di "fratelli perseguitati", ma la Cina preferisce non nominarla. Non puo' permetterselo, con la Cina tutti hanno trattative in corso. Anche il Papa. Che sta tentando il riavvicinamento con Pechino per sistemare la situazione della chiesa cattolica romana, che in Cina e' clandestina e non ha finora avuto vita facile.

Ma ieri c'e' stata la svolta: a parlare con il Dalai Lama e' andata Nancy Pelosi, speaker della Camera statunitense. "Riconosciamo la sofferenza del popolo tibetano fuori e dentro il Tibet", ha detto. E ha osato anche parlare dell'"oppressione cinese in Tibet". Addirittura, ha proposto un'indagine internazionale indipendente per scoprire le vere cause delle violenze sul tetto del mondo.
Ma poi anche Nancy ha deluso: "La nostra delegazione proporra' una risoluzione per un'inchiesta che assicuri l'assoluta mancanza di ogni legame tra il Dalai Lama e le violenze in Tibet".
Se e' questa la cosa piu' importante da accertare, povero Dalai Lama, gli rimane davvero solo Richard Gere.