mercoledì 7 maggio 2008

Birmania, più di 20.000 i morti


Sono salite a 22.500 le vittime accertate del tifone Nargis, che ha devastato la Birmania lo scorso fine settimana. Un quarto del Paese è stato colpito dal tifone, che è passato anche per l'ex capitale Yangon, la zona più densamente popolata del Myanmar.

I dispersi sono circa 41.000, i senzatetto un milione di persone. Le devastazioni sono state provocate principalmente dall'onda d'acqua alta 3 metri e mezzo che il tifone ha sollevato nel delta del fiume Irrawaddy. Per la gente non c'è stato scampo.

Ma il regime militare ha continuato fino a poche ore fa a mantenere sigillati i confini e gli operatori delle organizzazioni umanitarie internazionali sono fermi a Bangkok, in attesa del visto per entrare in Birmania. Da poco la portavoce dell'agenzia per il coordinamento degli Affari umanitari (Ocha), Elisabeth Byrs, ha annunciato una prima svolta: la giunta avrebbe permesso l'ingresso di un primo aereo carico di aiuti Onu.

Sono molti i governi che hanno offerto aiuti per le popolazioni delle zone disastrate: anche gli Stati Uniti hanno messo a disposizione 250.000 dollari, interrompendo un embargo che dura ormai da anni. Ma i responsabili degli aiuti, governativi e non, non sono disposti a recapitare fondi e materiale senza controllarne la destinazione. Il timore è che la giunta militare si appropri dei fondi anzichè utilizzarli per alleviare i disagi della popolazione.

Intanto si viene a sapere che il dipartimento metereologico indiano aveva avvertito Yangon dell'arrivo del tifone con 48 ore di anticipo. Ma come nel caso dello tsunami del 2004 l'avvertimento non è servito a nulla.
Neppure stavolta la catastrofe annunciata è stata evitata.

Secondo Enzo Boschi, presidente dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, il Sud Est asiatico è senz'altro un'area priva degli strumenti per affrontare emergenze di questo genere. Ma il problema non è solo questo.

In campo metereologico si potrebbe fare molto di più per la previsione di catastrofi simili.

Mettere in rete i principali enti di geofisica del mondo sarebbe la prima cosa da fare per ottenere un sistema d'allerta più rapido. Ma lo spazio non è libero: è il regno di poteri statali militari ed economici, che non hanno nessun interesse a permettere che un occhio pubblico monitori quello che accade nell'atmosfera e oltre.

Già solo con i satelliti esistenti si potrebbe fare molto per prevedere le catastrofi naturali, ma resta ancora aperto il problema di far arrivare in tempi brevissimi il segnale d'allarme ai diretti interessati, anche nei luoghi più remoti, e di organizzare l'evacuazione.

Anche nel caso dello tsunami del 2004 si era visto che nei Paesi con le migliori politiche di gestione del rischio, monitoraggio meteo ed educazione alle emergenze le vittime dell'onda anomala erano state molte di meno, grazie all'efficente e rapida evacuazione di enormi masse di persone.

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