venerdì 23 maggio 2008

Terremoto, tutta la Cina davanti al televisore

Continua a salire il bilancio delle vittime del terremoto nel Sichuan. L'agenzia di stampa cinese parla nel suo ultimo dispaccio di 55.740 morti, 292.481 feriti e 24.960 dispersi.
Riporta nel dettaglio i movimenti delle squadre di soccorso inviate dal governo cinese e dedica ampio spazio anche ai soccorritori stranieri (ci sono anche gli italiani).

I cinesi, in patria ma anche all'estero, stanno incollati alla televisione, che si muove con libertà illimitata nelle zone colpite dal sisma e racconta le storie di quelli che sono stati estratti dalle macerie e di quelli che non ce l'hanno fatta. Una copertura mediatica così accurata di una tragedia accaduta in madrepatria i cinesi non l'hanno mai avuta.

L'ultimo terremoto devastante, che ha colpito il Tangshan nel 1976, è stato argomento tabù per la stampa per decenni. Instillando nell'opinione pubblica, e non solo in quella straniera, il dubbio che il governo di Pechino non avesse risposto adeguatamente all'emergenza, fa notare Francesco Sisci nel suo blog.

Che aggiunge che, a vederla cinicamente, Hu Jintao nel suo rapporto con i media è stato molto più bravo dei suoi predecessori maoisti, che non sopravvissero all'oscuramento della tragedia del Tangshan.

La pressoché completa libertà concessa alla stampa, che sta permettendo una copertura televisiva quasi totale delle operazioni di soccorso, fa osservare ancora Sisci, non può che giovare al governo cinese, che può così dimostrare in diretta tv tutti gli sforzi compiuti per aiutare la popolazione a risollevarsi dalla tragedia.

A volere essere ancora più cinici, c'è da osservare che mentre Hu nel caso del Sichuan ha "usato" intelligentemente i media, non ha fatto altrettanto nel caso tibetano.

Vietare l'accesso ai giornalisti è sempre il sistema migliore per far capire a chiunque che qualche scheletro nell'armadio lo si ha.

L'unico corrispondente estero (dell'Economist) che si trovava in Tibet al momento delle proteste ha fornito una versione ben diversa dell'accaduto rispetto a quanto l'opinione pubblica occidentale mediamente si immagina. Ha visto monaci (autentici o no, avevano il capo rasato e indossavano le tipiche tuniche) che distruggevano vetrine di negozi han, ha visto sciarpe tibetane appese sull'uscio delle case, come a dire "qui niente saccheggi e devastazione".

Senza immagini a disposizione, dopo che il governo cinese ha vietato l'accesso in Tibet alla stampa straniera e controllato la propria, il mondo occidentale ha dovuto supplire alla mancanza di informazioni con l'immaginazione. I risultati di questa operazione Hu non li aveva minimamente previsti: la fiaccola olimpica che non trova pace, inseguita dovunque da attivisti, tibetani in esilio e pure qualche attore hollywoodiano. C'e' perfino qualche capo di stato che annuncia che per protesta non si presenterà alla cerimonia d'apertura dei Giochi.

Con la diretta tv del suo intervento nel Sichuan, invece, il governo non solo si è rifatto l'immagine, ma ha ottenuto anche un altro risultato, tutto sommato imprevisto.

Ha "riunificato" la Cina.
Tutto il Paese, tutte le fabbriche, da nord a sud, da est a ovest, si sono fermate per alcuni minuti per ricordare che si tratta di una tragedia collettiva.
E tutta la Cina si è riunita e continua a riunirsi davanti al televisore. Tutta, anche quella che dal terremoto non è stata minimamente toccata. Anche i cinesi emigrati all'estero, che dall'Italia come dal Congo si sintonizzano appena possono sulle frequenze satellitari della televisione di stato, CCTV.

Un ragazzino cinese, da poco in Italia, a scuola si lamenta perché non può guardare i soliti telefilm alla tv. "I miei genitori non fanno che guardare i reportage dal Sichuan". Gli chiedo se ha parenti o amici che sono rimasti coinvolti nei crolli. Mi dice che loro non conoscono nessuno che abiti nel Sichuan.

Il potere unificante che la tragedia ha da sempre, sommato all'altrettanto unificante potere del mezzo televisivo, ha ricompattato ulteriormente i cinesi. Anche se chissà se ne avevano davvero bisogno.

mercoledì 14 maggio 2008

Cina, quasi 15.000 i morti


Sono salite a quasi 15.000 le vittime del terremoto che ha colpito la regione del Sichuan in Cina.
Più di 50.000 soldati e paramilitari sono stati inviati nelle zone disastrate, ma le persone ancora sepolte sotto le macerie sono migliaia.

Nella mappa qui sopra, pubblicata dal New York Times, la geografia del disastro.

lunedì 12 maggio 2008

Terremoto in Cina, 9000 morti

La furia degli elementi non dà tregua all'Asia.
Pochi giorni dopo il ciclone Nargis, che ha messo in ginocchio la Birmania, è la Cina a dover fare i conti con una catastrofe di dimensioni inaudite.

Un terremoto di magnitudo 7,8 gradi della scala Richter ha colpito duramente la Regione del Sichuan, nel sud-est della Cina.


Secondo l'agenzia di stampa cinese, il bilancio attuale è di 9000 morti, ma si tratta di una cifra destinata a crescere.

L'epicentro del terremoto è stato a soli 100 km dalla capitale Chengdu, che conta circa 10 milioni di abitanti. Oltre alle case, sono crollate otto scuole della regione: soltanto in quella della città di Dujiangyan, un edificio a tre piani, sono rimasti sepolti 900 studenti.
Anche gli ospedali non sono stati risparmiati. E neppure due impianti chimici della regione, sotto i quali sono rimasti sepolti centinaia di operai e che hanno rilasciato sostanze altamente corrosive nell'area circostante.

Il governo ha agito immediatamente per portare soccorso nei territori colpiti dal sisma, mobilitando migliaia di soldati e paramilitari, ma molte vie di comunicazione sono rimaste bloccate a causa dei crolli di edifici e ponti e vi sono zone tuttora irraggiungibili.

In Cina non si vedevano terremoti così disastrosi da 30 anni: il sisma è stato avvertito in tutto il paese, perfino a Bangkok gli edifici hanno tremato. E le scosse di assestamento sono state oltre 300.

Oltre ai danni immediati, è probabile vi saranno anche quelli di lungo periodo. Perché la regione del Sichuan è una delle aree più fertili di tutta la Cina, ma la sua produzione agricola si basa su un sistema di irrigazione che il sisma ha danneggiato irrimediabilmente.

La mazzata all'agricoltura del Sichuan potrebbe provocare gravi ripercussioni economiche in tutto il paese. Il tasso d'inflazione, mai così alto da 12 anni a questa parte, potrebbe crescere ancora a danno dei consumatori cinesi.


(Immagine Reuters)

mercoledì 7 maggio 2008

Puttanatine...Per non perdersi...

In Asia non si può sbagliare strada, grazie ai furbi segnali multilingue che aiutano i turisti a valutare la propria situazione e agire di conseguenza...

Ma oltre all'inglese, qualcuno ha fatto giustamente notare che tra le lingue prescelte mancava l'italiano, anzi, il dialetto veneto...

Birmania, più di 20.000 i morti


Sono salite a 22.500 le vittime accertate del tifone Nargis, che ha devastato la Birmania lo scorso fine settimana. Un quarto del Paese è stato colpito dal tifone, che è passato anche per l'ex capitale Yangon, la zona più densamente popolata del Myanmar.

I dispersi sono circa 41.000, i senzatetto un milione di persone. Le devastazioni sono state provocate principalmente dall'onda d'acqua alta 3 metri e mezzo che il tifone ha sollevato nel delta del fiume Irrawaddy. Per la gente non c'è stato scampo.

Ma il regime militare ha continuato fino a poche ore fa a mantenere sigillati i confini e gli operatori delle organizzazioni umanitarie internazionali sono fermi a Bangkok, in attesa del visto per entrare in Birmania. Da poco la portavoce dell'agenzia per il coordinamento degli Affari umanitari (Ocha), Elisabeth Byrs, ha annunciato una prima svolta: la giunta avrebbe permesso l'ingresso di un primo aereo carico di aiuti Onu.

Sono molti i governi che hanno offerto aiuti per le popolazioni delle zone disastrate: anche gli Stati Uniti hanno messo a disposizione 250.000 dollari, interrompendo un embargo che dura ormai da anni. Ma i responsabili degli aiuti, governativi e non, non sono disposti a recapitare fondi e materiale senza controllarne la destinazione. Il timore è che la giunta militare si appropri dei fondi anzichè utilizzarli per alleviare i disagi della popolazione.

Intanto si viene a sapere che il dipartimento metereologico indiano aveva avvertito Yangon dell'arrivo del tifone con 48 ore di anticipo. Ma come nel caso dello tsunami del 2004 l'avvertimento non è servito a nulla.
Neppure stavolta la catastrofe annunciata è stata evitata.

Secondo Enzo Boschi, presidente dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, il Sud Est asiatico è senz'altro un'area priva degli strumenti per affrontare emergenze di questo genere. Ma il problema non è solo questo.

In campo metereologico si potrebbe fare molto di più per la previsione di catastrofi simili.

Mettere in rete i principali enti di geofisica del mondo sarebbe la prima cosa da fare per ottenere un sistema d'allerta più rapido. Ma lo spazio non è libero: è il regno di poteri statali militari ed economici, che non hanno nessun interesse a permettere che un occhio pubblico monitori quello che accade nell'atmosfera e oltre.

Già solo con i satelliti esistenti si potrebbe fare molto per prevedere le catastrofi naturali, ma resta ancora aperto il problema di far arrivare in tempi brevissimi il segnale d'allarme ai diretti interessati, anche nei luoghi più remoti, e di organizzare l'evacuazione.

Anche nel caso dello tsunami del 2004 si era visto che nei Paesi con le migliori politiche di gestione del rischio, monitoraggio meteo ed educazione alle emergenze le vittime dell'onda anomala erano state molte di meno, grazie all'efficente e rapida evacuazione di enormi masse di persone.

lunedì 5 maggio 2008

Birmania, il ciclone Nargis fa 4000 morti

È passato per il Myanmar sabato, ma la tv di stato ha dato la notizia solo oggi.

Il ciclone Nargis, che ha causato finora quasi 4000 morti e migliaia di dispersi, si è abbattuto sulla Birmania a 241 chilometri orari, distruggendo tutto quello che ha trovato lungo la sua strada. Fino a raggiungere l'ex capitale, Yangon, la cui popolazione supera i sei milioni e mezzo di persone.

Sono centinaia di migliaia le persone rimaste senza casa, nelle zone colpite dal ciclone manca completamente l'acqua potabile e al mercato nero i prezzi sono già saliti alle stelle. Le candele sono completamente scomparse, a riprova della scarsa fiducia della popolazione in un rapido ritorno dell'elettricità e degli altri servizi primari.

La giunta militare, che governa la Birmania da ormai 46 anni, pare aver dato un cauto benestare all'invio di aiuti da parte dell'Onu e degli stati vicini.

L'India ha già preparato due navi cariche di cibo, vestiti, coperte e materiali sanitari da spedire in Myanmar. Sono stati promessi aiuti anche dall'Ue, dalla Thailandia, da Singapore, dal Giappone.

Arriveranno anche gli aiuti statunitensi, ma con un escamotage che permetterà agli americani di non perdere la faccia nel confronto col regime birmano: il Myanmar è soggetto a sanzioni durissime da parte Usa, perciò i fondi d'aiuto giungeranno attraverso il World Food Program e altre organizzazioni umanitarie.

Si stima che il numero di morti dichiarati sia destinato a salire ancora: le organizzazioni internazionali parlano addirittura di un bilancio finale di 10.000 vittime.

Nonostante lo stato d'emergenza, che coinvolge 24 milioni di persone, la giunta militare non ha intenzione di cambiare i propri piani.

Il 10 maggio aveva indetto un referendum per l'approvazione di una nuova costituzione redatta dalla giunta stessa, sempre in chiave autoritaria, anche se con qualche concessione a un non lontano futuro multipartitico.

Non sarà un ciclone a cambiare i piani governativi, i militari l'hanno fatto capire chiaramente. Attirandosi, com'era ovvio, le critiche degli oppositori del regime così come degli osservatori internazionali, che vorrebbero che in questo momento le priorità fossero altre.

(L'immagine pubblicata è di proprietà di Hla Hla Htay/France-Presse — Getty Images)

giovedì 24 aprile 2008

Tempi duri per il Caro Leader?

Si annunciano tempi duri per la Corea del Nord.

Secondo il New York Times, la Casa Bianca la settimana prossima renderà pubblico un filmato in cui si vedono tecnici nordcoreani al lavoro in un reattore nucleare siriano, poco prima che il sito venga bombardato dall'aviazione israeliana.

A quanto pare il fatto risale al settembre scorso, ma si è deciso di discuterne solo ora.

Secondo alti ufficiali israeliani e americani si trattava di un reattore nucleare in costruzione, molto simile a quelli che si vedono in Corea del Nord. Pare che i siriani, dopo aver protestato per il bombardamento israeliano, che ha raso al tappeto il sospetto reattore, abbiano ricostruito il sito daccapo.

Ma perché rendere noto l'accaduto sette mesi dopo?

Le circostanze sono piuttosto sospette. Alla Corea del Nord gli Stati Uniti, attraverso il negoziatore Christopher Hill, hanno proposto un accordo, che in molti nell'amministrazione Bush giudicano troppo generoso.

Con la sua politica, Hill ha in pratica rinunciato ai tentativi di strangolare economicamente la Corea del Nord, scegliendo invece di aprire una tavola rotonda con tutti i paesi dell'area (Russia, Cina, Giappone, Corea del Sud) per discutere il problema del nucleare coreano.

L'accordo proposto da Hill, che i nordcoreani si sono dichiarati disposti ad accettare, prevede che, in cambio della sospensione dell'arricchimento del plutonio, la Corea del Nord venga eliminata dalla lista Usa dei Paesi del cosiddetto asse del male e che le sanzioni economiche statunitensi contro di lei vengano eliminate.

Fin dall'inizio l'accordo era stato giudicato negativamente dai falchi della politica americana. Per Dick Cheney, così come per l'ex ambasciatore Onu John Bolton, si tratta di un accordo che fa sembrare gli Stati Uniti "deboli", fin troppo pronti a concessioni.

Un accordo che ha fatto perdere a Hill l'appoggio presidenziale e anche quello del segretario di stato Condoleeza Rice. Al Dipartimento di Stato Hill si trova ora in una posizione di forte isolamento.

Il timore dei falchi, oltre a quello di dare un'immagine debole degli Usa all'estero, è che i nordcoreani, rinunciando al plutonio, vogliano ora riservarsi una via alternativa al nucleare, attraverso l'uranio, per il cui arricchimento il Pakistan pare avere fornito le tecnologie.

La Casa Bianca vorrebbe che il governo del Caro Leader facesse chiarezza su questo punto, così come sulla presenza di tecnici nordcoreani nel sito siriano bombardato.

Ma tutto fa pensare che la decisione di rendere noto soltanto ora il video in cui si vedono i tecnici con gli occhi a mandorla al lavoro in Medio Oriente sia dettata dal desiderio di paralizzare i negoziati tra Usa e Corea del Nord.

mercoledì 23 aprile 2008

La Cina cambia idea sulla tutela dei marchi

In Cina inizia una nuova era.

Due settimane fa la Corte suprema di Pechino ha dato ragione alla Ferrero, che aveva denunciato per plagio dei suoi famosi cioccolatini la cinese Montresor.
La settimana scorsa è stata la volta di Gucci, che ha vinto una causa contro la cinese Senda, accusata di produrre sandali con il falso logo della maison del lusso italiana.

Anche le major americane dell'intrattenimento sono ora più tutelate dal saccheggio intellettuale, grazie a un accordo firmato dai sette principali siti web cinesi che impiegano il loro materiale, accordo in cui si impegnano a ridurre la pirateria di musica e film online.

In questi giorni, a indicare il cambiamento di clima, Pechino ha addirittura lanciato la "settimana della proprietà intellettuale", iniziativa che farà tappa in varie città cinesi allo scopo di sensibilizzare le autorità e le imprese sul problema della violazione del copyright.

La svolta di Pechino, perché di vera e propria svolta si tratta, anche se non annunciata era comunque prevedibile.

La Tigre che cresce non ha più bisogno di copiare, o ne avrà bisogno ancora per poco. Ha invece la necessità di tutelare i "suoi" nuovi marchi, perché a rischio ci sono colossi come Lenovo-Ibm, passata in mani cinesi.

Dopo la fase della pirateria e delle copie selvagge, così come è successo al Giappone, anche l'industria cinese si sta fisiologicamente evolvendo verso la completa indipendenza intellettuale da Europa e America e diventa di anno in anno più innovativa e creativa.

Basti pensare che la Cina è prima al mondo per registrazione di nuovi marchi, con 708.000 applicazioni a fine 2007.

Presto europei e americani dovranno togliersi dalla testa l'idea di una nazione che copia le idee altrui e le produce a costi ridicoli, perché la situazione potrebbe ribaltarsi nel giro di pochi anni.

Potrebbero essere gli europei a prendere a prestito invenzioni cinesi.

Quando succederà, penseremo con nostalgia alle vittorie di Mr Ferrero e Gucci.
E la lotta della catena di hotel inglese "Ritz" contro la cinese "Rits" ci riporterà indietro nel tempo, a quando i cinesi ancora copiavano dal vecchio continente.

lunedì 14 aprile 2008

Giappone, il boia colpisce ancora


Non si ferma la scure del boia in Giappone.

La scorsa settimana sono stati eseguite altre quattro condanne a morte, dopo le tre di febbraio. Nel 2007 erano state nove le persone legalmente ammazzate dallo stato giapponese.

Sia chiaro, sono numeri relativamente piccoli rispetto ai dati sulla pena di morte in Cina o in Iran.

A colpire non è neppure il fatto che il Giappone sia un paese industrializzato, un membro del G8, visto che anche negli Stati Uniti la pena capitale è praticata non di rado.

Quello che suscita indignazione è l'appoggio pressochè completo della popolazione giapponese alla pena di morte.

Mentre negli Stati Uniti si sta facendo sempre più strada un approccio critico nei confronti della pena capitale, che ormai viene considerata necessaria da meno del 50% degli americani, in Giappone non c'è nessun segnale che faccia pensare a un cambiamento di mentalità da parte dei cittadini dell'arcipelago.

Mentre in America si discute sulla sofferenza fisica causata dall'iniezione letale e si sospendono le esecuzioni che utilizzano questo metodo, in Giappone la morte avviene da sempre per impiccagione e nel silenzio assoluto. Il condannato non saprà mai che quello che sta consumando è il suo ultimo pasto e i parenti sapranno della sua morte solo a esecuzione avvenuta. Fino all'anno scorso i nomi dei condannati non venivano neppure resi pubblici.

Il ministro della Giustizia, Kunio Hatoyama, nega che ci sia stata un volontario incremento del numero di sentenze eseguite, sette dall'inizio del 2008. "Ho semplicemente applicato la legge, non ho fatto caso all'intervallo di tempo trascorso tra un'esecuzione e l'altra". E perché farci caso? Finchè il popolo sarà con lui, il ministro non avrà nessun bisogno di giustificarsi.

Per saperne di più:
Japan death penalty information center
Amnesty international report 2007

sabato 12 aprile 2008

Italia, elezioni 2008


"La cosa più usuale a questo mondo, in questi tempi in cui tentenniamo alla cieca, è di scontrarci, svoltato l'angolo più vicino, con uomini e donne nella maturità dell'esistenza e della prosperità, i quali, essendo stati ai diciott'anni, non solo le ridenti primavere dello stile, ma anche, e forse soprattutto, esuberanti rivoluzionari decisi a rovesciare il sistema dei padri e metterci al suo posto il paradiso, beh, della fraternità, si ritrovano ora, con una fermezza per lo meno uguale, impoltriti in convinzioni e prassi che, dopo essere passate, per riscaldare e rendere più flessibili i muscoli, per una delle tante versioni del conservatorismo moderato, hanno finito per sfociare nel più sfrenato e reazionario egoismo.


In parole non tanto cerimoniose, questi uomini e queste donne, davanti allo specchio della propria vita, sputano tutti i giorni sulla faccia di quel che sono stati lo scaracchio di ciò che sono."

(José Saramago, Saggio sulla lucidità)

mercoledì 9 aprile 2008

Il Giappone che invecchia punta sui robot

Per il 2025 potrebbero fare il lavoro di 3 milioni e mezzo di persone. Senza pretendere stipendio, ferie, pensione. Sono i robot la soluzione alla carenza di manodopera giovane, in Giappone ne sono sempre piu' convinti.

Nel Sol Levante, cosi' come in Italia, la popolazione invecchia sempre piu', il tasso di natalita' e' fermo all'1,3% e si prevede che per il 2065 ben il 40% dei giapponesi sara' over 65. Un popolo di pensionati che la scarsa forza lavoro giovane rimasta non potra' certo controbilanciare: gia' nel 2030 il Giappone perdera' il 16% della propria popolazione attiva.

Di ricorrere a forza lavoro straniera, in un paese restio all'immigrazione come il Giappone, non se ne parla neppure. Nel Sol Levante la percentuale di immigrati sul totale della popolazione e' inferiore al 2% e il governo non ha nessuna intenzione di allentare le maglie della sua rigidissima politica sull'immigrazione.

Ma i robot si' che potrebbero coprire egregiamente la carenza di uomini. Non sostituendo in toto la persona, ma svolgendo per lei alcuni compiti per permetterle di concentrarsi su quelli piu' importanti.

L'assistenza agli anziani, per esempio, potrebbe essere in parte affidata a robot: in questo modo lo stato giapponese nel 2025 arriverebbe a risparmiare ben 22 miliardi di dollari di costi previdenziali. Le favole ai bambini potrebbero leggerle i robot, e magari dare anche una rassettata alla cucina dopo aver fatto un check up completo alla vecchia nonna.

Ipotesi fantascientifiche? Neanche tanto, visti gli enormi passi in avanti della robotica.

Il problema principale, anche in Giappone, sara' quello di riuscire a convincere le persone a farsi assistere dai robot.
Il vecchietto italiano impazzirebbe se invece della badante dalle curve generose si ritrovasse davanti un pezzo di metallo dalla voce asettica, incaricato di prendersi cura di lui.
Non credo che i vecchi nipponici la pensino in modo tanto diverso.

lunedì 31 marzo 2008

Dall'India agli States, i call center ritornano

Con la recessione che avanza i call center tornano in patria.

Non si è ancora esaurita la spinta alla delocalizzazione ma, complice l'annunciata recessione, sono sempre di più le aziende americane che fanno marcia indietro. E passano all'"inshoring", ovvero riportano in patria fasi produttive che la loro azienda aveva esternalizzato all'estero.

Con il risultato che iniziano a chiudere i call center di Bangalore e ne nascono di nuovi a Cincinnati. Perfino ditte indiane come la Infosys e Tata Consultancy Services hanno deciso di chiudere alcuni centri in India per aprirne di nuovi in America.

Sarà perché gli americani lavorano meglio? In effetti, c'è chi sostiene che sia una scelta dettata dalla volontà di fornire servizi migliori ai propri clienti, che sarebbero garantiti dalla maggiore esperienza degli americani nel campo delle nuove tecnologie.

La realtà è più amara. Si tratta di una mera questione economica. Con il dollaro ai minimi storici anche rispetto a monete come la rupia e il renminbi, il vantaggio di assumere dipendenti indiani o cinesi si è alquanto assottigliato.

E mentre gli stipendi dei lavoratori indiani dell'alta tecnologia crescono dal 2000 a un ritmo del 15% annuo, gli stipendi americani viaggiano in controtendenza. I programmatori degli States sono passati da un guadagno di 90 mila dollari annui ai 50-60 mila attuali.

Ultimo, ma non per importanza, il fattore disoccupazione: a causa della recessione economica, l'impiegato dei call center americani è sempre più qualificato. Nell'80% dei casi ha frequentato l'università, per il 10% è laureato. E non è più un ragazzino appena uscito dalla scuola, in media è ultraquarantenne, con un buon bagaglio di esperienze alle spalle.

Non c'è quindi tanto di cui gioire per l'inversione di tendenza delle aziende statunitensi.
Certo, si ricreeranno posti di lavoro negli Usa. Ma solo perché non ci sarà più bisogno di pescare lavoratori sottopagati negli stati a economia emergente, come si faceva un tempo. Anche gli States ora possono vantare il loro esercito di impiegati a buon mercato, disposti a turni massacranti per pochi dollari in busta paga.

Si era già previsto che la spinta delle tigri asiatiche si sarebbe inevitabilmente ridotta quando le richieste dei lavoratori fossero aumentate, sia per quanto riguarda la paga che le condizioni di lavoro.
Ma qui sembra che l'andamento sia inverso: non sono le paghe indiane ad adeguarsi a quelle statunitensi, sono i lavoratori americani che si adattano agli standard indiani. Anzi, dal punto di vista del welfare forse gli indiani stanno pure meglio.

sabato 22 marzo 2008

Gli amici del Dalai Lama


Sempre di meno. La lista degli amici del Dalai Lama si riduce sempre piu'. Anzi, forse di amici veri gliene rimane soltanto uno, Richard Gere.
L'aveva gia' capito durante la scorsa visita in Europa che la sua compagnia era diventata imbarazzante. Con una scusa o con un'altra era stato liquidato alla bell'e meglio da tutti i rappresentanti di governo della Ue, eccetto che da quel buon cuore della Merkel.
In Italia l'aveva incontrato la Moratti, avendo cura di nasconderlo fra altri Premi Nobel, e Beppe Grillo.

Anche dopo la rivolta repressa nel sangue, nonostante tutta la solidarieta' espressa, il Dalai Lama e' solo. I tibetani sono soli. Boicottare le olimpiadi non porterebbe a nulla - dice quasi tutto il mondo. Con la Cina non si scherza.

Durante la Via Crucis il Papa parla di "fratelli perseguitati", ma la Cina preferisce non nominarla. Non puo' permetterselo, con la Cina tutti hanno trattative in corso. Anche il Papa. Che sta tentando il riavvicinamento con Pechino per sistemare la situazione della chiesa cattolica romana, che in Cina e' clandestina e non ha finora avuto vita facile.

Ma ieri c'e' stata la svolta: a parlare con il Dalai Lama e' andata Nancy Pelosi, speaker della Camera statunitense. "Riconosciamo la sofferenza del popolo tibetano fuori e dentro il Tibet", ha detto. E ha osato anche parlare dell'"oppressione cinese in Tibet". Addirittura, ha proposto un'indagine internazionale indipendente per scoprire le vere cause delle violenze sul tetto del mondo.
Ma poi anche Nancy ha deluso: "La nostra delegazione proporra' una risoluzione per un'inchiesta che assicuri l'assoluta mancanza di ogni legame tra il Dalai Lama e le violenze in Tibet".
Se e' questa la cosa piu' importante da accertare, povero Dalai Lama, gli rimane davvero solo Richard Gere.